19 Febbraio 2016

Vi raccontiamo l'immigrazione attraverso gli occhi di Mohamed

«Sono felice di essere qui oggi, con voi. Spero di farvi comprendere il silenzio di tanti uomini e donne che, a differenza mia, non hanno avuto la fortuna di arrivare in Italia perché inghiottiti prima dal mare. Voglio anche farvi capire quanto siete fortunati ad avere la possibilità di studiare, di poter scegliere il vostro futuro. Nel mio paese, il Burkina Faso, purtroppo non è così. Non tutti i bambini hanno possibilità di frequentare la scuola, anzi, sono solo una piccolissima parte».

Gli studenti che ascoltano queste parole sono ragazzi tra i dodici e i quattordici anni. Frequentano un Istituto secondario di primo grado di Catania. Oggi, nell’ambito del progetto Nuove finestre sul Mondo, promosso dal COPE, incontreranno Mohamed, un rifugiato politico che racconterà loro i motivi che lo hanno spinto a lasciare il suo paese: il Burkina Faso. Sui volti degli studenti, la curiosità e la voglia di fare domande all’ospite speciale che, raccontando la sua storia, darà concretezza ai temi affrontati nel corso del primo incontro. Non appena Mohamed entra in classe il clamore delle voci si attenua, si placa fino a dissolversi del tutto. Gli occhi sono tutti per lui.

Tu hai frequentato la scuola? Eri bravo?

«Io ho avuto l‘opportunità di studiare e sono sempre stato bravo. Ogni anno nelle nostre scuole viene fatta una classifica.  Sono sempre stato tra i primi cinque. Solo una volta sono arrivato settimo e ho pianto tutto il giorno per il dispiacere. Ho avuto anche la possibilità di iscrivermi all’università. Ho scelto di studiare giurisprudenza, perché mi piaceva l’idea di diventare avvocato. Per frequentare l’università, mi sono trasferito nella capitale del Burkina, Ouagadougou».

Mohamed ma allora perché sei andato via dal Burkina?

«A scuola ho sempre fatto il delegato degli studenti, dalla primaria fino all’università. Nel 2011, come ogni anno, ho organizzato insieme agli altri delegati, una manifestazione per ricordare la morte di Norbert Zongo,  giornalista ucciso nel 1998, per le sue indagini scomode ai poteri forti africani, e di un giovane studente Justin Zongo, ucciso in seguito a percosse ricevute nei locali di un commissariato di Koudougou. Nel giorno della manifestazione tutto il paese si ferma; i negozi vengono chiusi.  Gli studenti, che io e altri due ragazzi rappresentavamo, sono andati anche in polizia per convincere i poliziotti a chiudere il commissariato. I poliziotti hanno fatto entrare solo i tre rappresentanti e ci hanno chiesto il perché della manifestazione. Noi abbiamo risposto che loro dovevano conoscere il motivo meglio di noi. Lo studente era stato ucciso proprio in un commissariato!  Ci hanno trattenuto più di due ore e, siccome fuori gli studenti urlavano e gridavano ai poliziotti di farci uscire, loro hanno deciso di arrestarci. Lo so che a voi può sembrare strano: essere arrestati per una manifestazione! Nel mio paese, però,  c’era la dittatura e quando c’è una dittatura non hai alcun diritto, non hai la libertà di dire nemmeno che c’è qualcosa nel tuo paese che non ti piace. Se critichi il governo puoi anche essere ucciso.”

E sei stato messo in prigione?

«Per fortuna il poliziotto che doveva portaci in prigione era un amico di mio padre. Mi ha riconosciuto e mi ha fatto scendere dalla macchina, prima di arrivare in carcere. Lui voleva liberare solo me ma io ho detto che se non faceva scendere anche gli altri due delegati io mi sarei rifiutato di scendere. Così siamo stati liberati tutti e tre. Questo poliziotto è stato ucciso qualche giorno dopo mentre cercava di prendere un aereo per scappare dal paese. Sapeva che, per il fatto di averci rilasciato, avrebbe avuto seri problemi.

Sei partito subito dal tuo paese?

«In realtà non ho capito subito la gravità della situazione, almeno fino a quando non ho sentito che parlavano di me in televisione, nei telegiornali. Ero ricercato! Dalla capitale, dove mi trovavo, sono tornato a casa mia, che si trova in un villaggio.

E i tuoi genitori erano preoccupati? Cosa hanno fatto?

«Quando sono arrivato a casa mia madre sapeva già tutto ed era molto preoccupata. Infatti mi ha detto subito di scappare. Anche perché casa mia era il primo posto in cui mi avrebbero cercato. Così ho deciso di ascoltare il consiglio di mia madre e di partire.

E come ti sei sentito? Avevi paura?

«Non avevo mai lasciato il Burkina. Solo una volta, in estate, avevo trascorso un mese in Kenya per migliorare il mio inglese, ed era stato bruttissimo perché avevo sentito molto la mancanza della mia famiglia. Provavo tante sensazioni. Ero spaventato. Non sapevo bene cosa fare. Mia mamma mi ha fatto accompagnare da un autista dal Burkina al Mali. Dopo il Mali ho raggiunto il Niger e da lì poi sono andato in Libia, attraverso il deserto, a piedi. Siamo partiti in 27 e siamo arrivati in 14. Il deserto ne ammazza tanti quanti il mare, ma di quei morti nessuno parla e, quindi, è come se non esistessero. Quei morti non commuovono.

Quando sei arrivato in Libia cosa hai fatto?

«In Libia, a Tripoli, ho affittato casa con altri due ragazzi. Dopo un po’ di tempo ho trovato un lavoro come imbianchino e stavo bene, fino a quando non è scoppiata la guerra. La notte non riuscivamo a dormire per i boati causati dalle bombe. Anche di giorno la città non era più sicura. Un giorno mentre ero a lavoro ho ricevuto una telefonata da uno dei ragazzi con cui condividevo la casa. Mi diceva che l’altro ragazzo che viveva con noi era stato ucciso. Era rimasto a casa per pregare. I ribelli lo avevano raggiunto a casa e lo avevano invitato ad unirsi a loro. Lui si è rifiutato e gli hanno sparato alle gambe. Sono andato subito a casa e ho trovato il mio amico in una pozza di sangue ma, per fortuna, era ancora vivo. Ho telefonato ad un poliziotto che avevo conosciuto lì a Tripoli. Lui ci ha aiutato. Ha portato il mio amico in ospedale e ha permesso a me e all’altro ragazzo di stare qualche giorno in una sua casa, in campagna, fuori città. Non era più sicuro per noi restare in Libia. Il nostro amico poliziotto ci ha aiutati a raggiungere l’Italia.

Come sei arrivato in Italia?

«Ho preso uno di quei barconi che vedete spesso in tv. Io non avevo mai visto il mare. Quando l’ho visto per la prima volta mi ha fatto paura. Poco prima di salire sulla barca il mare ha portato dei cadaveri. Ho pensato che anch’io avrei fatto la stessa fine. Volevo tornare indietro ma non potevo. Non avevo alternative. Sul bordo del mare c’erano due barche. Io ero insieme ad altri miei due amici. Uno è salito nella mia stessa barca. L’altro è salito sull’altra. Non è mai arrivato in Italia. La sua famiglia mi ha chiamato per sapere se sapevo che fine avesse fatto ma non ho avuto il coraggio di dire loro la verità.

Quanto tempo è durato il viaggio?

«Il viaggio è durato tre giorni ma io ho avuto la sensazione che sia stato più lungo. Sul barcone non c’è nemmeno spazio per allungare una mano. Se devi fare pipì devi metterti in piedi sul bordo e rischi di cadere. Eravamo più di trecento. Dopo un giorno è finita la benzina. Per fortuna sono venuti a salvarci delle navi della marina italiana. Altrimenti a quest’ora non sarei qui, a raccontarvi tutto questo.

 

Quando sei arrivato in Italia cosa hai fatto?

«Quando sono arrivato in Italia sono stato felicissimo anche se non stavo molto bene fisicamente. Vedevo tutto doppio, come se fossi  ancora sulla barca. Sono stato portato a Lampedusa e poi a Giarre. Ho iniziato subito a studiare italiano e ha frequentare tutti i corsi che mi proponevano. Ho provato a lavorare nel campo della ristorazione. Poi però ho capito che non era la mia strada. Ho avuto la possibilità di seguire un corso per mediatore culturale e ho capito che era quello che volevo fare davvero. Aiutare chi come me aveva fatto un viaggio così difficile e doloroso.

Le due ore dedicate alla testimonianza di Mohamed passano in fretta. Chissà quanto possa essere stata utile la testimonianza di Mohamed per ragazzi che, probabilmente, sentono parlare di migrazione solo in termini di stereotipi e pregiudizi. Di sicuro, la pacatezza e il sorriso di Mohamed, in grado di raccontare fatti terribili e dolorosi senza una punta di risentimento, servirà a mostrare che dietro ogni migrante che parte dalla Libia, o da qualsiasi altro paese per raggiungere l’Italia, c’è la storia sofferta di un uomo che non ha niente da perdere, che mette in conto di morire perché sa che dietro non si può tornare.

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